Non può ravvisarsi all’interno del diritto societario alcuna norma imperativa implicita che vieti o renda illegittima ex ante una clausola antistallo del tipo della roulette russa anche nel caso in cui la parte titolare del potere di determinare il prezzo non sia soggetta ad alcun criterio obiettivo da seguire e ciò a condizione che la clausola non porti, necessariamente, ad una determinazione iniqua. Ciò che l’ordinamento vuole non è tanto la fissazione di un valore intrinsecamente equo, ma che la clausola pattizia non consenta, a priori, di fissare un valore manifestamente iniquo. E ciò è confermato proprio dalla disciplina del recesso. Infatti, l’art. 2437 ter u.c. c.c. prevede, in caso di contestazione, da un lato, che il valore di liquidazione è determinato da un esperto nominato dal tribunale e, dall’altro, che si applica l’art. 1349 c.c. Sulla base di tale disciplina, la determinazione del valore operata dall’esperto è impugnabile solo ove sia manifestamente iniqua o erronea: consegue che la manifesta iniquità o l’erroneità della determinazione segnano il limite oltre il quale non è possibile alcuna contestazione e verifica dell’esattezza (recte: della corrispondenza al valore di mercato) di quella determinazione. In definitiva, il meccanismo di valutazione in caso di recesso, con il rinvio all’impugnazione ex art. 1349 c.c. della perizia dell’esperto nominato dal Tribunale non predetermina una fissazione del valore per azione che possa fungere da misura oggettiva per verificare se il terzo offre a titolo di prezzo un valore inferiore. Se l’iniquità non è imposta direttamente dalla clausola, allora l’eventuale differenza con il prezzo formato dal socio titolare dell’iniziativa non rileva allora come misura che segnala la invalidità della clausola – per contrarietà a norma imperativa – ma rileva come prova o indizio dell’abuso perpetrato dal detto socio. Tuttavia, ai fini della dimostrazione dell’esercizio abusivo della clausola, non sarebbe sufficiente la determinazione manifestamente iniqua del prezzo, ma sarebbe comunque necessario anche l’approfittamento di particolari condizioni in cui versa il socio oblato. Dimostrando che l’impossibilità di avvalersi del diritto di prelazione è conseguenza dell’altrui violazione della correttezza e buona fede, il socio oblato potrà pretendere il risarcimento del danno e, in casi estremi, in cui sia possibile fornire la prova liquida che l’unica ragione dell’esercizio del diritto di acquisto è la volontà di effettuare un acquisto a prezzo vile, sarà possibile paralizzare l’altrui pretesa attraverso l’exceptio doli. In questo caso, il socio abusato avrà l’onere di dimostrare che l’acquisto è avvenuto a prezzo manifestamente iniquo e gli altri sintomi dell’abuso, ed il risarcimento del danno potrà coprire la differenza.