La valuta virtuale deve essere considerata uno “strumento di investimento” perché consiste in un “prodotto finanziario” e deve dunque essere disciplinata dalle norme in materia di intermediazione finanziaria (articolo 94 e seguenti del Tuf). La II sezione penale, accogliendo il ricorso del Pg, ha disposto un nuovo giudizio in merito al mancato sequestro preventivo di un wallet contenente 30 bitcoin relativamente ai reati, ipotizzati, di esercizio abusivo dell’attività finanziaria e autoriciclaggio. Nel caso specifico all’imputato era stata contestata la raccolta di fondi che “aveva avuto come scopo la creazione di una piattaforma decentralizzata di servizi logistici”, e il fatto che “a chi aveva contribuito erano stati corrisposti in cambio LWF Coin, che costituivano titoli per l’utilizzo dei servizi della piattaforma”. Per la Corte ricorrono tutti gli elementi distintivi dell’investimento finanziario, poiché i soggetti interessati all’investimento per ottenerlo: “a) hanno erogato capitali (sotto la forma di bitcoin); b) con l’aspettativa di ottenere un rendimento, costituito dalla corresponsione di altre monete virtuali che avrebbero permesso la partecipazione alla piattaforma, dal valore variabile a seconda del momento dell’acquisto e che avrebbe acquistato maggior valore se il progetto relativo alla piattaforma avesse avuto successo; c) hanno assunto su di sé un rischio connesso al capitale investito”.