È principio consolidato che l’amministratore di una società di capitali, con l’accettazione della carica, acquisisce, di regola, il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli. Tale diritto è, nelle s.p.a., espressamente sancito dagli artt. 2389 c.c. e 2364, n. 3), mentre per quanto concerne le s.r.l., nonostante l’assenza di analoghe disposizioni espresse, esso viene pacificamente ricavato dall’applicazione analogica degli artt. 1709 e 2389 c.c. Secondo i principi del sistema vigente, quello di amministratore di società è contratto che la legge presume oneroso (cfr. la norma dell’art. 1709 cod. civ. dettata con riferimento allo schema generale dell’agire gestorio e senz’altro applicabile anche alla materia societaria, come pure posta a presupposto delle previsioni dell’art. 2389 cod. civ., specificamente scritte per il tipo società per azioni). Non v’è dunque ragione di ritenere che il diritto a percepire il compenso rimanga subordinato a una richiesta che l’amministratore rivolga alla società amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico. Anche laddove difetti una disposizione dell’atto costitutivo e l’assemblea si rifiuti od ometta di stabilire il compenso spettante all’amministratore ovvero lo determini in misura inadeguata, dunque, quest’ultimo è abilitato a richiederne al giudice la determinazione, eventualmente in via equitativa, purché alleghi e provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte. Trattandosi, nondimeno, di diritto disponibile — giacché al rapporto di immedesimazione organica intercorrente tra la società e il suo amministratore non si applica né l’art. 36 Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c. — deve ritenersi legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni di compenso degli amministratori, prevedendo come meramente “eventuale” la remunerazione dell’organo gestorio e subordinando espressamente l’attribuzione del compenso alla determinazione dei soci compiuta “all’atto della nomina.